mercoledì

Torture per animali domestici


Robin è vissuto a casa nostra tre anni. Incredibile per un pesciolino così magro e depresso quale era.

Probabilmente la vita che gli ruotava attorno non era delle migliori ma almeno la vista toglieva il fiato.

Ha sempre vissuto in una gigantesca palla di vetro sul mobile che stava sotto la vetrata del soggiorno. Da lì ha potuto osservare Corso Magenta ogni minuto del giorno e della notte.
Il via vai delle automobili, le sirene delle ambulanze, migliaia di teste che procedevano in due sensi e s’affrettavano a sorpassare o a schivare una pozzanghera, baci appassionati di innamorati, anziani, cani.

Non avrà girato il mondo, ma almeno ha potuto osservare minuziosamente uno squarcio di esso. La vita moderna non assicura a tutti i pesci rossi un’opportunità simile.
Molti di essi congelano e muoiono di stenti in laghetti artificiali abbandonati di qualche ex-piazza importante o di qualche villa decrepita di periferia. Molti di loro finiscono negli scarichi domestici per colpa della distrazione dei loro padroni.

Peggio ancora chi finisce nella spesa di un ristorante cinese.
Robin, tutto sommato, era uno di famiglia. Gli volevamo bene.

La nostra famiglia apprezzava i suoi silenzi, la sua discrezione quasi regale, anche se alcune volte ci chiedevamo quale fosse il suo stato d’animo, come mai quell’aria desolata.
Noi non potevamo certo dargli delle gioie.
Se gli animali assomigliano ai loro padroni, beh, Robin e mio padre erano del tutto simbiotici, generalmente assenti e sognanti in altre dimensioni spazio-temporali.
Una mattina mentre camminavo scalzo in cucina ho avvertito prima di appoggiare il piede a terra una presenza agonizzante vicina.

Robin si stava contorcendo sul pavimento: a tratti spasmodicamente, altre volte esausto e arrendevole.
Lo raccolsi anche se sembrava voler fuggire dalle mie mani. Lo riposi nell’ampolla. Era riuscito a fare almeno un metro e mezzo di strada da dove poteva essere caduto.
Che terribile incidente Robin! Non sarebbe accaduto mai più, povero cucciolo solo.


Gli dedicai una buona mezz’ora della mia giornata facendo colazione di fronte alla palla mentre entrambi guardavamo fuori. Beato te, pensai, che non devi far altro che rilassarti e guardare fuori che succede.

Tornai a casa nel pomeriggio, dopo scuola. Robin riposava tranquillo.

In serata giocammo a scacchi per qualche mano poi mio padre se ne andò in biblioteca a riposare un po’ il cervello. Io e mia madre c’addormentammo sul divano.
All’alba mi svegliai con i muscoli intorpiditi e la sensazione di non aver chiuso occhio un momento. Robin non c’era. Corsi in cucina. Neppure.

L’ombra della morte mi seguiva ma non riuscivo a voltarmi in tempo.

Trovai Robin a pochi centimetri dal mobile su cui stava l’ampolla, nascosto dietro ad un piede. Era già morto ed ormai tiepido. Gli occhi spalancati.
Corsi in camera a cercare mio padre piangente e terribilmente in colpa pensando allo sguardo di lui non appena gli avrei comunicato la disgrazia.

"Il pesce è morto il pesce è morto!"
Mio padre s’alzo dal letto con i capelli arruffati e la voce greve: “Credo che Robin volesse morire” mi disse, mentre s’infilava le pantofole.
Sai, l’avrei voluto fare oggi, ma sono arrivato tardi. Chiudere i Carassius auratus – perché questo è il nome corretto da usare - in una palla di vetro è una violenza disumana. Perdono completamente l’orientamento e vengono colpiti da terribili mal di testa. Ritengo che Robin abbia fatto questo gesto come ultima e risolutiva ribellione ad un mondo che non voleva capire la sua lingua.” Lo osservavo abbottonarsi la vestaglia mentre mi spiegava queste Verità.
Dobbiamo rispettarlo se giudichiamo legittima l’eutanasia. È un modo per crescere, bimbo, un modo per comprendere i misteri della vita”.
Con queste parole, uscite da una bocca storta e afflitta, dimenticai presto l’accaduto e mi concentrai a capire quello che mi era appena stato detto.
Dunque: il pesce non era morto di solitudine né di noia e neppure di noncuranza, ma bensì per la mia ignoranza e incapacità di curare i suoi mal di testa.
Non capii mai se mio padre fosse dispiaciuto per la morte di Robin. Ad ogni modo quello fu l’ultimo pesce rosso che mi fu concesso tenere in casa. Fino a che non diventai un artista.



Questa storia è frutto della fantasia di Ramina che una mattina, in un momento di zapping nella rete, ha conosciuto Marco Evaristti e per tutto il giorno non ha fatto altro che pensare alla sua infanzia.

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